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Alieni nel Mediterraneo: un’invasione lunga 130 anni

Il cambiamento climatico ha già cambiato il Mediterraneo: la costante crescita delle temperature, che sta avvenendo anche sotto il pelo dell’acqua, ha messo in crisi l’ecosistema e aperto le porte – tramite il canale di Suez e lo stretto di Gibilterra – a nuove specie aliene, che si stanno accumulando ormai da oltre un secolo.

A dimostrarlo è una nuova ricerca coordinata dal Cnr, appena pubblicata sulla rivista scientifica Global change biology, in cui si ricostruisce questa storia per le specie ittiche introdotte a partire dal 1896.

«Lo studio dimostra come il fenomeno abbia avuto un’importante accelerazione a partire dagli anni ’90 e come le invasioni più recenti siano capaci delle più rapide e spettacolari espansioni geografiche –  spiega il ricercatore Cnr-Irbim Ernesto Azzurro, coordinatore dello studio – Da oltre un secolo, ricercatori e ricercatrici di tutti i paesi mediterranei hanno documentato nella letteratura scientifica questo fenomeno, identificando oltre 200 nuove specie ittiche e segnalando le loro catture e la loro progressiva espansione. Grazie alla revisione di centinaia di questi articoli e alla georeferenziazione di migliaia di osservazioni, abbiamo potuto ricostruire la progressiva invasione nel Mediterraneo».

Come già accennato, sono due le porte di ingresso di questa colonizzazione: «Le specie del Mar Rosso, entrate dal canale di Suez (inaugurato nel 1869), sono le più rappresentate e problematiche. Ci sono, tuttavia, altri importanti vettori come il trasporto navale ed il rilascio da acquari. I ricercatori hanno considerato anche la provenienza atlantica tramite lo stretto di Gibilterra».

Risultato: con centinaia di specie esotiche, il Mar Mediterraneo viene oggi riconosciuto come la regione marina più invasa al mondo. Ma quali sono gli effetti ambientali e socio-economici di queste “invasioni aliene”?

«Alcune di queste specie costituiscono nuove risorse per la pesca, ben adattate a climi tropicali e già utilizzate nei settori più orientali del Mediterraneo – conclude il ricercatore Cnr-Irbim – Allo stesso tempo, molti ‘invasori’ provocano il deterioramento degli habitat naturali, riducendo drasticamente la biodiversità locale ed entrando in competizione con specie native, endemiche e più vulnerabili. Il ritmo della colonizzazione è così rapido da aver già cambiato l’identità faunistica del nostro mare; pertanto ricostruire la storia del fenomeno permette di capire meglio la trasformazione in atto e fornisce un esempio emblematico di globalizzazione biotica negli ambienti marini dell’intero pianeta».

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