La ricerca ha riguardato 245 imprese provenienti da 8 paesi in via di sviluppo (Brasile, Cina, India, Malesia, Messico, Russia, Sudafrica e Tailandia) osservate dal 1992 al 2012. Il campione è composto da imprese leader che fanno parte del ranking Forbes Global 2000 come, ad esempio, la brasiliana Vale Corp, la cinese China Construction Bank, l’indiana Tata Motors o la Russa Gazprom.
«Abbiamo imparato che i cattivi nel mercato non sono necessariamente gli anelli più deboli, ma gli anelli più forti, quelli con le migliori performance economiche – spiega la coordinatrice dello studio, Elisa Giuliani – ma abbiamo anche verificato l’importanza delle norme nel regolare il comportamento di impresa: ridurre i cosiddetti governance gap dei governi è un passo fondamentale per disciplinare il mondo delle imprese e promuovere un capitalismo più responsabile».
Dallo studio emerge che in media un raddoppio della prestazione economico finanziaria rispetto alle imprese globali dello stesso settore aumenta la probabilità di commettere abusi di circa il 25%: le violazioni riguardano ad esempio i diritti del lavoro, cioè la mancanza di salari giusti, il lavoro minorile, la schiavitù moderna, la poca sicurezza e le discriminazioni sul lavoro, ma anche il diritto alla vita, alla salute.
In altre parole sono «le imprese di successo a violare maggiormente i diritti umani, questo perché sono disposte a tutto pur di restare al top della scala competitiva globale, assumendosi anche il rischio di essere sanzionate o dal sistema giuridico o dal mercato attraverso un danno reputazionale».
Un atteggiamento che non riguarda di certo solo le imprese provenienti da Paesi in via di sviluppo, anzi. «Questo risultato – argomenta Giuliani – non è necessariamente limitato alle imprese nei paesi emergenti, questo studio non vuole puntare il dito contro queste regioni. Infatti, già nel 2010, un altro studio, tra i pochissimi ad oggi esistenti, mostrava come le imprese occidentali più esposte a comportamenti illegali fossero proprio quelle di maggior successo economico-finanziario. Il nostro studio rafforza quindi questa prospettiva con nuova evidenza e nuove interpretazioni teoriche. In sintesi, c’è una irresponsabilità sociale da parte delle grandi aziende di successo che ci impone un ripensamento del modello di capitalismo contemporaneo, che trascende il paese di origine di queste grandi imprese globali».
Come frenare questa dinamica? «Esistono dei correttori che possono mitigare questo effetto se non anche invertire la tendenza, in primo luogo – sottolinea Giuliani – le norme di diritto nei paesi dove queste aziende vanno ad investire e secondariamente la presenza di un codice di autoregolamentazione aziendale in materia di diritti umani, che spesso le aziende adottano anche per mantenere una legittimità nel mercato globale, ma che può anche essere usato come strumento interno di pressione normativa».
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