È un compito faticoso ma necessario in un Paese dove si fa largo una strisciante politica repressiva, come mostra da ultimo il decreto appena approvato dal Governo Meloni per contrastare le varie forme del disagio giovanile col carcere e altri approcci securitari.
«Le frontiere sono confini di classe che abitano le nostre città, e con queste realtà di confine Cospe lavora tutti i giorni – spiega Anna Meli, neo presidente dell’ong – Oggi sentiamo però che siamo a un punto critico: le forze del cambiamento che affianchiamo ci chiedono di essere più radicali, di avere coraggio per immaginare un domani diverso. Il cambiamento può essere subito o governato, e noi vogliamo provare a definire una trasformazione reale collaborando con istituzioni locali, fondazioni e le altre ong, tenendo insieme l’aspetto locale e quello globale. Abbiamo bisogno di capire che ci si salva solo tutti e tutte insieme».
Da qui la proposta e l’urgenza di un nuovo patto in grado di ridefinire le relazioni tra gli attori in gioco, lanciato oggi in Sala Pegaso; non per migliorare la società con un semplice lifting, ma per cambiarla in meglio.
All’alba di Cospe, quarant’anni fa, c’era forse più ottimismo – lo stesso acronimo dell’ong fa esplicito riferimento alla cooperazione per lo sviluppo dei Paesi emergenti –, una virtù che oggi si fatica a trovare. Il presente porta però in dote una maggiore consapevolezza su come costruire insieme uno sviluppo davvero sostenibile, “decolonizzando” anche la cooperazione.
In un momento storico in cui il paradigma socioeconomico dominante sta mostrando tutti i suoi limiti portando il globo a un passo dal collasso ecologico, è dall’ascolto delle periferie – delle città come del sud del mondo – che possono nascere soluzioni innovative per rispondere ai bisogni delle persone.
Oltre che lungo lo Stivale (con sedi in Toscana come in Emilia-Romagna, Veneto, Marche e Liguria) Cospe ha progetti attivi in 24 Paesi del mondo, e per sua natura rappresenta un soggetto ideale per far maturare questa consapevolezza.
Per far capire, ad esempio, che dal cibo di cui ci nutriamo passa (o meno) la distruzione dell’Amazzonia; che un commercio equo e sostenibile porta vantaggi a tutti gli attori in gioco; che tra culture indigene e tutela dell’ambiente c’è un legame inscindibile, in grado di supportare una rivoluzione delle coscienze anche nelle menti occidentali.
Meli riassume quest’approccio parlando di «interconnessioni profonde tra la sacralità della terra, della natura e noi», ma anche evidenziando quel muro di gomma nel dibattito pubblico, mediatico e politico che in Italia rende difficile far capire come ciò che accade a livello internazionale abbia una influenza enorme sulla vita quotidiana dei cittadini.
Le basi su cui lavorare, seppur sepolte da una coltre di cinismo e indifferenza, esistono e solo solide. A partire dall’art. 45 della Costituzione italiana, ricordato oggi dal sindaco Dario Nardella, secondo il quale – caso unico in Europa – la legge è chiamata non solo a tutelare ma a promuovere la cooperazione.
«Se c’è un futuro per la cooperazione – riconosce l’assessora regionale Serena Spinelli – passa dall’abbandonare l’idea che si tratti di buonismo verso il resto del mondo, un mondo diverso dal nostro. Occorre invece rappresentare la cooperazione internazionale come un cambiamento del modello di sviluppo che vogliamo attuare anche nelle nostre comunità. E la Regione può essere un ente che aiuta a mettere in rete le varie realtà attive in questo sforzo».
È un primo passo per dare corpo a quel nuovo patto sociale messo sul tavolo da Cospe, necessario per andare «tutti insieme verso una cooperazione – conclude Meli – attenta ai bisogni delle persone».
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