Ex allievo di Georgescu-Roegen, fondatore della bioeconomia, Daly è stato associate director dell’Istituto per l’economia ecologica (Eie) e professore emerito alla School of public affairs dell’Università del Maryland. Prima di coprire quest’incarico, Daly è stato senior economist del dipartimento Ambiente della Banca mondiale, contribuendo a sviluppare le linee guida legate allo sviluppo sostenibile. Daly è stato inoltre co-fondatore e associate editor della rivista Ecological economics, edita dall’International society for ecological economics.
Herman Daly ci ha onorato partecipando al think tank di greenreport – Ecoquadro – come membro emerito: ne ricordiamo con affetto gli insegnamenti riproponendo di seguito una sua brillante e sempre attuale riflessione.
L’economia di stato stazionario è definita come un modello caratterizzato da stock costanti di ricchezza materiale (artefatti) e persone, ciascuno mantenuto a un certo livello desiderabile mediante un basso tasso di produttività: ciò significa un basso tasso di natalità corrispondente a un basso tasso di mortalità, nonché bassi tassi di produzione materiale corrispondenti a bassi tassi di ammortamento dei beni materiali, in modo tale che la longevità delle persone e la durata degli stock di beni siano elevate. Il flusso produttivo, inteso come il costo di mantenimento delle scorte, inizia con l’estrazione (sfruttamento) delle risorse a bassa entropia in entrata e termina con una pari quantità di rifiuti ad alta entropia (inquinamento) in uscita. La produttività deve rimanere entro le capacità di rigenerazione e assorbimento dell’ecosistema.
La soluzione non può più essere la crescita, poiché oggigiorno la crescita continua si è rivelata antieconomica. Essa infatti determina un incremento dei costi ambientali e sociali con un ritmo più veloce rispetto ai benefici produttivi, rendendoci complessivamente più poveri. La povertà deve essere combattuta principalmente attraverso ridistribuzione della ricchezza e del reddito, maggiore produttività delle risorse e un approccio più etico.
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea sono ancora due economie improntate alla crescita. Esse adottano politiche diverse, comunque finalizzate alla crescita. Tuttavia, dal momento che al giorno d’oggi la crescita è antieconomica, entrambe si rivelano inefficaci.
La legge sulla completa occupazione del 1946 ha definito la piena occupazione uno degli obiettivi principali della politica degli Stati Uniti. La crescita economica è stata perciò considerata il mezzo per raggiungere l’obiettivo della piena occupazione. Oggigiorno, tuttavia, questa relazione è stata invertita. La crescita economica è infatti diventata il fine e se i mezzi per raggiungere tale scopo (automazione, delocalizzazione, intensi flussi migratori) generano disoccupazione, non ci resta altro da fare che pagare questo prezzo per la tanto agognata crescita del Pil. Se vogliamo realmente la piena occupazione, dobbiamo invertire fini e mezzi. Per conseguire l’obiettivo della piena occupazione, dovremo limitare automazione, delocalizzazione e immigrazione massiccia ai periodi in cui si verifica una reale carenza di manodopera interna, come si evince da salari alti e crescenti. Inoltre, la piena occupazione può essere ottenuta anche riducendo la durata della giornata, della settimana o dell’intero anno lavorativo in cambio più tempo libero e rinunciando a un aumento del Pil.
I salari reali sono in calo da decenni, ciononostante le nostre aziende, alla costante ricerca di manodopera a basso costo, continuano a lamentarsi della carenza di manodopera. In verità, quello che le multinazionali vogliono davvero è un surplus di manodopera. In questo contesto infatti, i salari generalmente non aumentano, pertanto tutti i guadagni generati dall’aumento della produttività confluiscono nel profitto, non nei salari. Da ciò deriva un forte sostegno a favore di automazione, delocalizzazione, nonché un’applicazione eccessivamente lassista delle leggi democratiche sull’immigrazione.
Le tradizionali politiche di stimolo fanno ben poco per ridurre la disoccupazione, per diverse ragioni. In primo luogo, i posti di lavoro che i lavoratori cercano nuovamente sono stati in gran parte delocalizzati, dal momento che i datori di lavoro cercavano principalmente manodopera straniera a buon mercato. Di conseguenza, la manodopera straniera a basso costo derivante dall’immigrazione clandestina sembra essere stata accolta favorevolmente dai datori di lavoro che cercano di colmare i posti vacanti nel proprio Paese. In terzo luogo, i lavori sono stati “esternalizzati”, ossia affidati all’automazione, vale a dire ai robot in fabbrica, nonché ai consumatori, costretti a improvvisarsi cassieri, agenti di viaggio, addetti ai bagagli, bancari, benzinai, ecc. Infine, l’alleggerimento quantitativo ha mantenuto i tassi di interesse bassi e i prezzi delle obbligazioni alti, con un beneficio maggiore per i bilanci delle banche piuttosto che per l’occupazione. Gli utenti traggono vantaggio da tassi ipotecari più bassi, ma sono più penalizzati dalla riduzione dei proventi da interessi sui risparmi, il che non favorisce l’occupazione.
Questi fatti fanno propendere per un ritorno all’obiettivo originale della legge del 1946 che mirava alla piena occupazione, non alla crescita. Analizziamo quattro ulteriori motivi a favore di questo ritorno.
In primo luogo, la delocalizzazione della produzione e dei posti di lavoro non può essere giustificata come “scambio commerciale”. Il bene la cui produzione è stata delocalizzata viene venduto negli Stati Uniti per soddisfare lo stesso mercato che prima veniva servito dalla produzione interna. La delocalizzazione determina un incremento delle importazioni statunitensi e, dal momento che nessun prodotto viene esportato in cambio, essa si traduce anche in un aumento del disavanzo commerciale. Poiché oggigiorno la produzione dei beni avviene perlopiù all’estero, gli sforzi compiuti negli Stati Uniti per rilanciare l’economia stimolano in larga parte le importazioni statunitensi e l’occupazione all’estero. Di conseguenza, la domanda di manodopera statunitense cala, provocando la diminuzione del tasso di occupazione e dei salari. È assurdo che la delocalizzazione debba essere difesa in nome del “commercio libero”. In realtà non avviene alcuno scambio di beni. L’assurdità è aggravata dal fatto che la delocalizzazione comporta lo spostamento di capitali all’estero e l’immobilità internazionale dei capitali è una delle premesse su cui si fonda la dottrina dei vantaggi comparati; tra l’altro la politica del libero scambio si basa proprio sul vantaggio comparato! Se crediamo veramente nei vantaggi comparati e nel libero scambio, allora dobbiamo porre dei limiti alla mobilità dei capitali e alla delocalizzazione.
In secondo luogo, per quei lavori che non sono stati ancora delocalizzati, o che non possono esserlo facilmente (ad esempio, baristi, cameriere, giardinieri, operatori sanitari, ecc), è ormai disponibile manodopera straniera a basso costo derivante dall’immigrazione clandestina. Molti datori di lavoro negli Stati Uniti sembrano accogliere favorevolmente gli immigrati clandestini. Perlopiù si tratta di persone buone e oneste, disposte a lavorare per un misero salario e impossibilitate a lamentarsi delle condizioni di lavoro a causa del loro status di clandestini. Questi fattori generano divisioni all’interno dei sindacati, nonché il crollo dei salari della classe operaia americana, la quale, tra l’altro, include molti immigrati regolari. Il governo federale, da sempre sensibile agli interessi di coloro che offrono posti di lavoro, non si è per nulla impegnato a far applicare le nostre leggi sull’immigrazione.
In terzo luogo, l’automazione del lavoro in fabbrica, dei servizi in banca, dei rifornimenti presso le stazioni di servizio, ecc… viene solitamente elogiata come una valida soluzione, frutto del progresso tecnologico, per risparmiare lavoro. In un certo senso, tutto ciò è vero, ma l’automazione comporta anche la sostituzione del capitale al lavoro, nonché il trasferimento degli oneri relativi alla manodopera ai consumatori. Questi ultimi non ricevono nemmeno un salario minimo per il lavoro extra, pur accettando la dubbia affermazione secondo cui essi beneficiano di prezzi più bassi in cambio del self-service. I tradizionali contatti umani diminuiscono e il commercio diventa più sterile, impersonale e digitalizzato. In particolare, si riducono drasticamente le interazioni quotidiane tra persone appartenenti a classi socio-economiche diverse.
Infine, una “Tobin tax”, ossia una piccola tassa percentuale su tutti i mercati azionari, mercati obbligazionari e operazioni di cambio ostacolerebbe operazioni ad alto tasso di rischio, speculazione e giochi d’azzardo nel casinò di Wall Street, favorendo al contempo la riscossione di introiti utili a colmare il deficit federale. Queste misure potrebbero essere adottate in tempi brevi. A lungo termine dovremmo passare a riserve obbligatorie al 100% sui depositi a vista, ponendo così fine alle alchimie con cui le banche creano denaro dal nulla e lo prestano con interessi. Ogni dollaro prestato da una banca sarebbe un dollaro precedentemente risparmiato dal proprietario di un deposito vincolato, rispettando il classico equilibrio economico tra astinenza dal consumo e nuovi investimenti. La maggior parte delle persone crede erroneamente che ora le banche funzionino così. La nostra massa monetaria passerebbe dall’essere prevalentemente un debito finanziario delle banche private, a un debito pubblico non finanziario. Il denaro dovrebbe essere un’utilità pubblica (un’unità di conto, un bene rifugio o un mezzo di scambio), non uno strumento attraverso il quale le banche richiedono ai clienti un pagamento di interessi non necessario, proprio come un casello privato su una strada pubblica.
Manodopera a buon mercato e strampalate politiche economiche in nome della “crescita e la competitività globale” si basano sulle classi e pertanto sono elitarie. Persino sotto il falso mito del libero commercio, globalizzazione, apertura delle frontiere, innovazione finanziaria e automazione rimangono pur sempre politiche di crescita per mezzo di manodopera a basso costo e illusione economica. Chiediamoci come mai la distribuzione del reddito negli Stati Uniti è diventata così iniqua. Ci è stato sempre risposto che la colpa è della crescita troppo lenta, la sola causa di tutti i nostri problemi! Il fatto che staremmo meglio se fossimo più ricchi è una verità lapalissiana. A questo punto la domanda è: un’ulteriore crescita del Pil ci renderebbe davvero più ricchi, oppure ci sta rendendo più poveri, incrementando gli innumerevoli costi della crescita a un ritmo più veloce rispetto ai benefici rilevati? Questa semplice domanda è un tabù tra economisti e politici, per timore che si scopra che i benefici della crescita si limitano all’1% della popolazione, mentre l’aumento dei costi viene “condiviso” con i poveri, le generazioni future e le altre specie.
L’articolo È morto Herman Daly, il padre nobile dell’economia di stato stazionario sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.
ARTICOLO TERMINATO!
E come sempre ti raccomandiamo: se hai domande, dubbi, chiarimenti di qualsiasi tipo, scrivici nei commenti o lascia la tua valutazione! Il team di GREENYTOP è al tuo servizio per offrirti un servizio di qualità. Per richieste di collaborazione e di carattere promozionale Contattaci via email. Un saluto dal team di Greenytop!