
Come mostra un’analisi condotta dall’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, in Europa i soli Stati che attualmente prevedono la flat tax come imposta sul reddito delle persone fisiche sono la Russia (13%), l’Estonia (20%), la Romania (10%), la Bosnia-Erzegovina (10%), la Bielorussia (13%), la Bulgaria (10%), l’Ucraina (18%) e l’Ungheria (15%).
Lo stato dell’arte affonda le radici negli anni ’90, quando – dopo il crollo dell’Urss – nell’est europeo era pressante l’esigenza di creare «sistemi fiscali compatibili con un’economia di mercato e di farlo molto rapidamente», da crearsi dunque con «imposte sul reddito personale caratterizzate sempre da una forte semplicità». La flat tax in Europa non nasce dunque per abbassare le tasse, semmai il contrario.
«Contrariamente a quello che si possa pensare, diversi di questi paesi, tra cui la Lituania e la Lettonia, l’hanno adottata con l’esplicito obiettivo di aumentare il gettito fiscale. Per questo motivo, imposero come aliquota unica l’aliquota massima del previgente sistema progressivo», argomenta l’Osservatorio dei conti pubblici.
Eppure, dal 2010 a oggi sette Paesi europei che avevano introdotto la flat tax hanno fatto marcia indietro. Come mai? «La maggioranza degli studi empirici – spiega l’Osservatorio – fornisce risultati non incoraggianti sull’impatto che la flat tax avrebbe sulla crescita economica. Inoltre, non ci sono indicazioni che l’introduzione della flat tax si sia autofinanziata, sebbene vari studi non indichino nemmeno che ci sia stato un drammatico peggioramento nelle entrate fiscali. Per quanto riguarda la crescita economica, sebbene i paesi dell’Est abbiano registrato tassi di crescita del Pil reale elevati, questo risultato favorevole potrebbe essere indipendente dall’introduzione della flat tax».
Una realtà che di fatto vale anche per la Russia, Paese che viene preso a “modello” perché sembra aver ottenuto migliori risultati dalla flat tax. In realtà, anche in questo caso, la «conclusione che ne trae un fondamentale lavoro del Fondo monetario è che l’introduzione di una flat tax non ha effetti significativi sull’offerta di lavoro e in generale sulla crescita aggregata e dunque non ci si può attendere che la riforma si autofinanzi».
Non ci sono dunque evidenze scientifiche che mostrino come in Italia potrebbe andare meglio, anzi, come abbiamo già argomentato su queste pagine qui, qui e qui.
Nel 2019, quando la flat tax era già il cavallo di battaglia fiscale della Lega, sempre l’Osservatorio dei conti pubblici (ma anche lo stesso ministero dell’Economia) documentava come con una flat tax al 15% sui redditi delle persone fisiche (Irpef) e delle società ci rimetterebbero sia le casse dello Stato sia l’80% dei lavoratori.
Senza dimenticare che l’introduzione della flat tax avrebbe come ovvia conseguenza l’ulteriore aumento delle disuguaglianze, in un Paese già particolarmente gravato da questo fardello come l’Italia, con tutti i problemi – dal mancato sviluppo economico all’impatto sul clima – che si porta dietro.
L’articolo Flat tax, se la conosci la eviti: ecco i Paesi europei che l’hanno introdotta e già cancellata sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.
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