Per esempio, parole come “parassiti”, “rettili” e “zecche” furono usate dal naziosmo e dal fascismo – e ancora oggi dall’estrema destra – per paragonare gli “estranei” e le minoranze agli animali.
Nell’agosto 2017, quando gruppi di suprematisti bianchi si dettero appuntamento all’università di Charlottesville per partecipare a un raduno “Unite the Right” e usarono metafore che facevano referimento sia agli animali che alla sporcizia quando dissero che stavano combattendo contro la »Classe parassitaria di anti-parassiir tario dei bianchi» e che volevano eliminare «La sporcizia anti-bianca e anti-americana».
Con l’ascesa dei movimenti politici populisti e di estrema destra a partire dal 2010, l’utilizzo di metafore disumanizzanti per generare odio nei confronti degli stranieri o di coloro che sono in qualche modo diversi si è diffuso in tutto il mondo, Italia compresa. Nel 2016, durante una campagna pubblica orchestrata dallo stato contro rifugiati e migranti in Ungheria, il primo ministro di destra Viktor Orbán liu definì un veleno. Parole simili sob no state usate prima e dopo da esponenti della destra italiana oggi al govderno, anche se quel ricordo sembra cancellato da una strana atmosfera di rimozione.
Lo studio di Danesi mostra qualcosa di profondamente preoccupante: «Metafore disumanizzanti come queste sono così potenti perché attingono e “accendono” i circuiti esistenti nel cervello che collegano insieme immagini e idee importanti e salienti. In realtà, le metafore aggirano i centri di ragionamento cognitivo superiore, dirigendo i nostri pensieri a concentrarsi su certe cose ignorandone altre. Più questi circuiti si attivano più diventano cablati, fino a quando diventa quasi impossibile spegnerli».
Lo stesso vale per le teorie del complotto: la ricerca di Danesi dimostra che «Le persone che ci credono sviluppano percorsi neurali più rigidi, il che significa che trovano difficile ripensare quelle situazioni. Quando ci imbattiamo in una grande bugia o in una teoria del complotto, può plasmare le nostre idee senza che ce ne accorgiamo. Essendo esposti a particolari metafore, possiamo sviluppare sentimenti ostili nei confronti di gruppi specifici: ecco perché i gruppi di odio usano le metafore per accendere gli interruttori, in modo da motivare le persone all’attivismo violento».
Sfortunatamente i ragionamenti e la buona politica sembrano avere poco effetto: la ricerca su questo cablaggio cerebrale dimostra anche che «Una volta che le persone iniziano a credere alle bugie, è improbabile che cambino idea anche di fronte a prove che contraddicono le loro convinzioni. Al contrario, queste persone cercheranno invece informazioni che confermino le loro convinzioni, eviteranno tutto ciò che è in conflitto con loro, o addirittura capovolgeranno le informazioni contrastanti, in modo da adattarle alle loro convinzioni. Per questo motivo, è improbabile che le persone con forti convinzioni cambino idea su qualcosa».
Danesi avverte che «Questo può avere conseguenze devastanti. Quando le bugie vengono usate per generare odio, tendono a derivarne comportamenti dannosi, tra i quali violenza contro un individuo o e genocidio contro i gruppi target. La diffusione di bugie sta anche diventando un potente fattore nel generare instabilità politica e sociale in tutto il mondo, destabilizzando le democrazie».
Ma allora, se siamo portati a credere alle bugie di dittatori e provocatori, cosa possiamo fare per proteggerci e non e<diventare strumento di criminali politici e disinformatori? Secondo Danesi, «La cosa migliore che possiamo fare è capire le metafore dell’interlocutore ed esaminare le nostre metafore. Tuttavia, la storia e la scienza ci dicono che è improbabile che funzioni: la ricerca dimostra che una volta che una bugia viene accettata come credibile, il cervello diventa più suscettibile alle successive bugie».
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