Intanto si va in direzione opposta. Il decreto Alluvioni approvato ieri dal Senato destina 4,5 mld di euro a ristoro dei danni provocati a partire dal mese di maggio dalle bombe d’acqua, quando solo in Emilia-Romagna i danni stimati ammontano a 8,8 mld di euro.
Soprattutto, sempre ieri il Governo Meloni ha proposto di tagliare dal Pnrr 1,3 mld di euro contro il rischio alluvioni e il dissesto idrogeologico. Si tratta di una delle 114 proposte di modifica sui 349 obiettivi che compongono il Piano nazionale di recupero e resilienza (Pnrr), presentate dal ministro Fitto.
Ufficialmente «si tratta per lo più di progetti in essere che sono confluiti nel Pnrr e che in sede di attuazione e rendicontazione hanno scontato rilevanti criticità», in particolare «riconducibili al principio del ‘Non arrecare danno significativo’ (Do no significant harm, Dnsh)» all’ambiente.
Com’è però evidente guardando in particolare ai fondi contro il dissesto idrogeologico, soprattutto in un momento storico in cui gli eventi meteo estremi stanno crescendo in Italia a causa della crisi climatica, i motivi sembrano altri. Su tutti, quelli legati all’obbligo di realizzare gli interventi entro il 30 giugno 2026, data di scadenza del Pnrr, a fronte dei ritardi in corso.
«Il definanziamento di progetti previsti dal Pnrr, tra cui alcuni per la gestione del rischio di alluvione e del rischio idrogeologico per 1 miliardo e 287 milioni, è una sconfitta per il sistema Paese, arrivata all’indomani di tragici eventi, conseguenza della crisi climatica, che sta colpendo l’intera Penisola», commenta Francesco Vincenzi, presidente dell’Associazione che riunisce i Consorzi di bonifica (Anbi).
Ma le misure definanziate dal Governo sono molte altre. Se le proposte verranno approvate, nel Pnrr ci saranno 6 mld di euro in meno per l’efficienza energetica, 3,3 dedicati alla rigenerazione urbana per contrastare il degrado sociale, 2,5 per i Piani urbani integrati, 1 per l’impiego dell’idrogeno nei settori hard-to-abate (come l’Ilva di Taranto), 0,7 per le aree interne, 0,6 per gli impianti rinnovabili innovativi, 0,3 per valorizzare i beni confiscati alle mafie, 0,1 per la valorizzazione del verde urbano ed extraurbano.
Si tratta in totale di risorse per 15,9 mld di euro che spariscono dal Pnrr. Il Governo promette comunque di finanziare questi progetti tramite altri fondi, in particolare «il Piano nazionale complementare al Pnrr e i fondi delle politiche di coesione», che non scadono nel 2026, lasciando dunque incertezza sulle tempistiche di realizzazione. Peraltro «l’intero impianto di proposte però sono state adottate senza consultare la società civile, che da mesi chiede di essere ascoltata dal Governo», come denuncia l’Osservatorio civico Pnrr, promosso da ActionAid e da Cittadinanzattiva e a cui aderiscono decine di realtà sociali.
«Chiediamo al Governo garanzie immediate sul finanziamento di queste opere che in molti casi, come per quelle finanziate dal ministero dell’Interno, sono già state realizzate», dichiara il presidente Anci Antonio Decaro. Il livello d’allarme è elevato anche perché, all’interno di quei 15,8 mld di euro, ben 13 sono «fondi Pnrr che erano stati assegnati ai Comuni».
Tali risorse, ad ogni modo, non spariranno. I 15,8 mld di euro, assieme a 2,76 mld di euro a fondo perduto destinati dalla Commissione Ue e al 7,5% delle politiche di coesione 2021-27, andranno a finanziare un nuovo capitolo che entra nel Pnrr: il RePowerEu, l’iniziativa europea lanciata dopo l’invasione russa dell’Ucraina per favorire maggiore sicurezza e sostenibilità negli approvvigionamenti energetici.
Il Governo propone infatti di integrare il Pnrr finanziando il RePowerEu italiano con 19 mld di euro, suddivisi in tre misure d’investimento e sei riforme.
Nel dettaglio, il primo capitolo degli investimenti, con risorse pari a 2,3 mld di euro, dedicato al rafforzamento delle reti elettriche e del gas; altri 14,8 mld sono legati ad interventi sulla transizione verde e l’efficientamento energetico; 6,3 andranno al settore produttivo delle imprese per investire sull’innovazione energetica; 4 all’efficientamento energetico degli edifici pubblici e altrettanti per ecobonus sulle abitazioni private delle famiglie a basso reddito; 2 per investimenti sulla catena del valore delle materie prime critiche; 0,4 per l’elettrificazione delle banchine portuali.
Le sei riforme del RePowerEu, infine, cubano nel complesso 100 mln di euro: si parla di ridurre i costi di allacciamento alla rete gas degli impianti per la produzione di biometano; di incentivare i contratti a lunga scadenza per le rinnovabili (Ppa); di investire nelle competenze verdi (green skill) nel settore privato come in quello pubblico; definire una roadmap per «la razionalizzazione dei sussidi inefficienti ai combustibili fossili», che nel mentre continuano però ad aumentare.
La sesta e ultima proposta di riforma riguarda invece «l’adozione di un Testo unico per l’autorizzazione degli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili, che mira a semplificare e coordinare le disposizioni legislative e regolamentari che disciplinano, in particolare, i procedimenti amministrativi nel settore delle fonti energetiche rinnovabili». Ancora oggi, infatti, i nuovi impianti rinnovabili entrano in esercizio alla metà della velocità necessaria per traguardare gli obiettivi indicati proprio dal RePowerEu.
Adesso il nuovo Pnrr del Governo Meloni dovrà affrontare l’esame delle Camere, per essere poi inviato all’attenzione della Commissione Ue – con la quale si aprirà poi il relativo negoziato – entro la fine di agosto.
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