Per ben due volte, nel 1987 e nel 2011 – in entrambi i casi a valle di disastro atomico, prima a Chernobyl e poi a Fukushima – in Italia ha vinto un referendum contro lo sviluppo dell’energia nucleare, ma il Governo Meloni continua a battere su questo tasto.
Come di prassi quando si tratta di nucleare, l’annuncio resta molto sul vago: la Piattaforma «costituirà il soggetto di raccordo e coordinamento tra tutti i diversi attori nazionali che a vario titolo si occupano di energia nucleare, sicurezza e radioprotezione, rifiuti radioattivi, sotto tutti i profili. In particolare – precisa il ministero – si punta allo sviluppo di tecnologie a basso impatto ambientale e a elevati standard di sicurezza e sostenibilità», di cui però ad oggi non c’è traccia.
Si tratta di un’iniziativa che segue la lettera d’intenti per «collaborare allo sviluppo del nuovo nucleare in Europa e favorirne la diffusione, in prospettiva anche in Italia», firmata lo scorso marzo da gruppo Ansaldo (dove il ministero dell’Economia ha un ruolo determinante tramite la partecipazione di Cdp), Edison (controllata da Edf) ed Edf (controllata dallo Stato francese, nonché primo produttore di energia nucleare al mondo).
In questo caso l’attività della piattaforma, coordinata dal ministero col supporto di Rse (Ricerca sul sistema energetico) e di Enea, sarà finalizzata anche «a rafforzare il contributo dell’Italia nella ricerca e nell’alta formazione universitaria (corsi di laurea, laurea magistrale e dottorati di ricerca), implementare la cooperazione e la partecipazione a livello europeo e il coordinamento dei progetti e delle attività a livello nazionale tra Università ed enti di ricerca».
Si tratta di un approccio diametralmente opposto a quello adottato dal primo Paese manifatturiero d’Europa – nonché più attrattivo al mondo –, ovvero la Germania, che ha chiuso le ultime tre centrali nucleari attive nell’aprile del 2023. Una scelta contestabile per aver comportato un maggior ricorso nell’immediato ai combustibili fossili, ma che vista in prospettiva offre una lezione preziosa: per un Paese come l’Italia, che dovrebbe ri-iniziare da zero la propria avventura nucleare, costruire nuove centrali non ha senso sé sotto il profilo economico, né per la lotta alla crisi climatica.
Il motivo è molto semplice, ed è stato riassunto sabato scorso dal cancelliere tedesco Olaf Scholz: «Chiunque voglia costruire nuove centrali impiegherebbe 15 anni e dovrebbe spendere dai 15 ai 20 miliardi di euro per unità». Ovvero impiegando tempi e costi esorbitanti rispetto a quelli richiesti dalle fonti rinnovabili.
«L’Italia non può permettersi di perdere tempo e fondi per riaprire la discussione sul nucleare – commenta nel merito il Wwf – I problemi di sicurezza, delle scorie e di economicità della fissione nucleare non sono stati superati, mentre la fusione nucleare non arriverà prima di 30 anni, cioè arriverà a transizione completata».
Per l’Italia sarebbe dunque saggio continuare a investire nella ricerca sulla fusione nucleare, ma soprattutto mostrare coraggio politico nell’individuare il Deposito nazionale per i rifiuti radioattivi; la Carta delle aree potenzialmente idonee a ospitarlo è pronta dal 2015, ma ancora non c’è stata una sintesi politica sulle aree effettivamente idonee. Il Governo Meloni si è impegnato ad approvarla entro la fine dell’anno, ma nel mentre continuano ad accumularsi i ritardi.
Intanto il comparto delle rinnovabili procede col freno tirato a mano: nei primi 7 mesi dell’anno sono entrati in esercizio solo 3 GW, mentre dovrebbero arrivare ad almeno 10 entro fine anno per rispettare i target europei RePowerEu.
«Del decreto per rendere operative le Comunità energetiche rinnovabili non si hanno notizie dal febbraio scorso – concludono dal Wwf –, mentre la bozza di decreto sulle Aree idonee, arrivata dopo un’attesa lunghissima, è scritta per rendere tali aree ingestibili. Cui prodest? Perdere tempo fa comodo al gas, un combustibile fossile».
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