Il rapporto dell’organizzazione ambientalista indipendente europea, mostra come sono cambiati i flussi di approvvigionamento del combustibile fossile in Europa ed evidenzia che «Il vecchio continente, lontano dal ridurre la sua domanda di petrolio, ha semplicemente sostituito le importazioni dalla Russia con quelle provenienti da altri paesi produttori, perdendo così -ancora una volta – un’opportunità storica per tagliare il consumo di fossili e ridurre la dipendenza dall’import».
Carlo Tritto, policy officer per T&E Italia, evidenzia che «In poco più di un anno, l’Ue ha ridotto sensibilmente la sua dipendenza dal petrolio russo. Purtroppo questo non è dovuto a un abbattimento nei consumi di combustibile fossile, ma a una strategia di sostituzione “barile per barile” del greggio russo con quello di nuovi fornitori. Se tutti gli sforzi profusi nel ridisegnare la mappa delle importazioni fossero stati indirizzati verso politiche di superamento della dipendenza dagli idrocarburi, oggi avremmo un sistema energetico migliore e più pulito».
Nel gennaio 2022, la Russia rappresentava il 31% delle importazioni europee di petrolio. Nel marzo 2023, a seguito delle sanzioni Ue, la quota era scesa ad appena il 3%. Ma T&E fa notare che «Questo non è coinciso con alcuna riduzione nei consumi, purtroppo. Alla fine del 2022, gli Stati Uniti hanno sostituito la Russia come primo esportatore in Europa, con l’11% delle importazioni dell’Ue. Seguono a ruota la Norvegia e l’Arabia Saudita. Oltre a quelle dai fornitori tradizionali, sono cresciute le importazioni mensili dall’Angola verso l’Ue, aumentate di 6 volte raggiungendo quasi i sei milioni di barili. Anche la quota delle esportazioni brasiliane e irachene è aumentata».
L’aumento delle importazioni europee ha coinciso con un incremento della produzione e delle esportazioni globali di petrolio. Ad esempio, il 70% dell’aumento della produzione petrolifera statunitense, tra il 2021 e il 2022, era destinato all’Ue. L’analisi di T&E dimostra che «L’80% dell’aumento delle esportazioni di petrolio verso l’Europa proviene da soli 10 giacimenti petroliferi. La maggior parte della crescita delle esportazioni proviene dal Texas, a cui seguono il giacimento Johan Sverdrup – il più grande della Norvegia – e il giacimento brasiliano Lula».
E il rapporto denuncia che 18 “bombe climatiche” riforniranno l’Ue fino al 2030. Le “bombe climatiche” sono: i giacimenti di Buzios e Lula in Brasile, Rumaila, West Qurna, Majnoon e Zubair in Iraq, Troll e Johan Sverdrup in Norvegia, Ghawar, Safaniyah, Khurais, Manifa, Shaybah, Zuluf, Khursaniyah, Marjan, Abqaiq e Harmaliyah in Arabia Saudita.
T&E ribadisce che «Nonostante l’ampio consenso degli scienziati sul fatto che lo sviluppo di nuovi progetti di upstream di idrocarburi sia “incompatibile” con l’obiettivo di rispettare la soglia dei 1,5°C di aumento delle temperature medie del Pianeta, continuano a essere pianificati, su scala globale, nuovi progetti di estrazione petrolifera, specie nei Paesi chiave che riforniscono l’Ue. Duecento tra questi (alcuni operativi, altri in programma) sono le cosiddette “bombe climatiche” oil & gas, che emetteranno più di 1 giga tonnellata di CO2 nel corso della loro vita e supereranno di gran lunga il budget di carbonio residuo per contenere il cambiamento climatico entro il 1,5°C. T&E ha identificato 18 tra questi progetti che, allo stato attuale, si prevede alimenteranno i consumi petroliferi europei fino al 2030».
Inoltre, il petrolio russo raggiunge l’Ue per altre rotte: nell’ultimo anno le importazioni di prodotti petroliferi raffinati da Cina e India sono cresciute rispettivamente del 70% e del 13% e questi Paesi importano petrolio russo a basso costo e lo riesportano nell’Ue come jet fuel e diesel. T&E sottolinea che «Creare una “porta di servizio” per il petrolio russo è contrario alle sanzioni dell’Ue» e mette in guardia sulla «Possibilità che miliardi di euro siano transitati dall’Ue alla Russia, col rischio di finanziare la guerra contro l’Ucraina».
Mentre l’Ue approva politiche per ridurre il consumo di combustibili fossili, T&E denuncia che «Il consumo di petrolio in Europa è cresciuto del 2% rispetto all’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. L’analisi mostra che, nonostante lo sforzo a livello continentale per ridurre il consumo di gas, che nel periodo considerato è sceso del 15%, gli europei non stanno facendo altrettanto per abbattere i consumi di petrolio. La domanda ostinatamente elevata di greggio, in Europa, è trainata principalmente dal settore dei trasporti. Il traffico stradale è tornato ai livelli pre-pandemici e il settore dell’aviazione è destinato a raggiungere il suo picco nel corso dell’anno. Il mese scorso il gigante petrolifero Shell ha annunciato di voler abbandonare gli obiettivi di riduzione della produzione di petrolio per puntare a maggiori profitti»-
Se l’Unione europea vuole davvero raggiungere i suoi obiettivi climatici per il 2030, questo comporterà una diminuzione della domanda di petrolio del 16%. Ma, come mostrano gli scenari di T&E, «L‘Europa può fare di più, fino a ridurre la domanda di petrolio di un terzo attraverso una combinazione di misure quali l’accelerazione dell’elettrificazione del trasporto stradale, l’implementazione di limiti di velocità e la riduzione del traffico aereo».
Tritto fa notare che «Alle famiglie europee, durante la campagna promossa dalla Commissione europea per la riduzione dei consumi di gas, è stato chiesto di abbassare i termostati nelle loro abitazioni. L’Ue ha un piano per ridurre il consumo di gas entro il 2024. Ma non ne ha per abbattere i consumi di petrolio. Con politiche mirate alla riduzione della domanda e all’aumento dell’efficienza, l’Europa potrebbe ridurre il consumo di petrolio di un terzo».
Poi c’è il caso Italia, il Paese dei rigassificatori e dell’hub del gas che ha fatto accordi per sostituire il petrolio e il gas del dittatore Putin con il petrolio e il gas di dittature arabe e africane. «Al contrario di altri Paesi, che con l’avvio del conflitto in Ucraina hanno rapidamente cercato di diversificare le fonti di import di greggio – rivela T&E – , l’Italia ha visto crescere, nel 2022, il consumo di petrolio russo (+65% rispetto all’anno precedente), che è arrivato a rappresentare il 19% delle importazioni italiane (il 13% nel 2021). Questo dato si spiega in larga parte con la presenza di una raffineria di proprietà russa, la ISAB, nel porto siciliano di Augusta. Come già documentato dal Financial Times e da Reuters, prima della guerra questa raffineria sembrava operasse con greggio di diverse provenienze; con l’inizio delle sanzioni sul petrolio russo, tuttavia, il greggio di Mosca è passato dal 30% al 100% del raffinato, potendo l’impianto contare solo sulle forniture provenienti dalla sua società madre, la Lukoil. La ISAB, nel 2022, ha processato un quinto del greggio arrivato in Italia, determinando appunto l’impennata delle importazioni complessive di greggio russo. Tale crescita si è esaurita con l’inizio del 2023, per via dell’embargo (-90% tra novembre e dicembre 2022). Nel mentre è stato annunciato l’accordo per la vendita della raffineria Lukoil a una società cipriota».
Oltre al petrolio russo, prima del conflitto ucraino l’Italia comprava petrolio soprattutto da Azerbaijan e Libia. Il rapporto rileva che «Nel 2022 le importazioni da questi Paesi sono diminuite rispettivamente del 28% e del 9% rispetto al 2021. Una maggiore diversificazione nel portfolio di Paesi da cui importiamo petrolio si è manifestata con la fine del 2022 e soprattutto con l’inizio del 2023. I dati dei primi mesi di quest’anno mostrano quali Paesi hanno compensato il calo dei primi tre esportatori: l’Iraq è diventato il maggior esportatore verso l’Italia, con un’impennata del 15% tra il 2021 e l’inizio del 2023. Anche le importazioni dagli Stati Uniti sono aumentate (del 140%), tanto che gli Usa figurano ora tra i primi cinque esportatori di petrolio verso l’Italia. La crescita percentuale maggiore è tuttavia quella del greggio dal Kazakistan (+460% rispetto al 2021), che ora è il sesto esportatore in Italia; ugualmente sono cresciuti i flussi dall’Arabia Saudita, quinto Paese esportatore con il 17%».
Basta leggere i nomi dei Paesi dai quali importiamo petrolio per capire che la difesa della democrazia e dell’Occidente c’entrano poco o nulla e che facciamo affari petroliferi anche con inguardabili regimi autoritari che a loro volta fanno affari d’oro con la Russia.
L’articolo La nuova mappa del petrolio: come l’Ue ha rimpiazzato il greggio russo senza ridurre i consumi sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.
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