Antonietta Rizzo, responsabile del Laboratorio Enea Metodi e tecniche nucleari per la sicurezza, il monitoraggio e la tracciabilità (FSN-SICNUC-TNMT), che fa parte della rete dell’Alta Tecnologia dell’Emilia-Romagna, spiega che «In pratica, il fascio di elettroni spezza il legame carbonio-fluoro dei PFAS, che è uno tra i più forti nella chimica organica. Il risultato è la formazione di fluoruri, che sono comunque inquinanti ma decisamente più facili da trattare e da abbattere. Tecnologie analoghe sono già in uso, in varie parti del mondo, per il trattamento di acque reflue con svariati tipi di inquinanti e permettono di abbattere sensibilmente i costi di gestione degli impianti. Nel caso dei PFAS, questa tecnica potrebbe essere l’unica realmente efficace per ottenere risultati soddisfacenti»,
I PFAS sono diffusissimi, vengono utilizzati negli indumenti impermeabili e nei tessuti anti-macchia, nelle schiume antincendio e nei tessuti ignifughi, nei rivestimenti antiaderenti di pentole e padelle, in imballaggi come le buste di popcorn da microonde e in numerosi incarti di cibi da fast-food, nei cosmetici, nei tessuti d’arredamento, nelle vernici, nelle cromature, nelle pellicole che rivestono i pannelli solari ma anche nei materiali edili come i rivestimenti per metalli e le piastrelle. Nella banca dati dell’OCSE sono elencati oltre 4.700 tipi di molecole PFAS e tutti hanno in comune una persistenza estremamente elevata.
Chiara Telloli, anche lei del FSN-SICNUC-TNMT, aggiunge che «Queste sostanze chimiche sono altamente solubili in acqua e non si degradano nell’ambiente a causa della loro stabilità chimica, andando a contaminare acqua potabile, alimenti e i mangimi, dovunque vengano utilizzati. Anche se smettessimo subito di produrli, rimarrebbero in circolazione per generazioni, considerando che nessun’altra sostanza chimica artificiale permane nell’ambiente tanto a lungo quanto i PFAS, con un impatto importante sugli acquiferi superficiali e profondi».
Finora, le metodologie di depurazione tradizionali basate su resine a scambio ionico oppure su carboni attivi non si sono rivelate efficaci con i PFAS e, oltre ad essere costose, producono spesso scarti che sono a loro volata rifiuti speciali, da trattare in seguito in impianti idonei con ulteriore aggravio di costi e un inevitabile impatto ambientale. «Da qui la necessità – spiega a sua volta Alberto Ubaldini del del FSN-SICNUC-TNMT – di studiare tecnologie alternative da trasferire all’industria nazionale. Una ditta italiana specializzata in depurazione delle acque, la Tintess di Thiene (Vicenza), ha già mostrato interesse per questa innovazione e sta valutando eventuali sviluppi nella fattibilità tecnologica e nella sostenibilità del processo».
Il team Enea intende trattare le acque contaminate da PFAS con plasma elettronici, una tecnologia che – utilizzando solo elettricità – converte l’acqua in una miscela di specie chimiche altamente reattive (ioni attivi, radicali idrossilici liberi, atomi di idrogeno liberi ed elettroni solvati tra cui OH- , O–, H+, HO2, O2 – , H2, O2, H2O2),, che svolgono una rapida azione di degradazione di molti inquinanti, compresi i PFAS e permettono di trattare un grande volume di liquidi in un tempo limitato o perfino in continuo.
La Rizzo fa notare che «I vantaggi non finiscono qui. Queste specie chimiche prodotte a partire dal fascio degli elettroni sono molto “aggressive” ma di breve vita, dell’ordine di pochi millisecondi, e non introducono alcuna possibilità di contaminazione poiché, alla fine del processo, non possono sopravvivere nell’impianto. Questo significa che nessuna radiazione residua rimane nell’acqua irraggiata dopo il trattamento. L’unica vera limitazione pratica è la penetrazione limitata degli elettroni in acqua che è di pochi centimetri. Ma su questo aspetto è in corso uno studio per valutare l’efficienza di penetrazione e lo spessore di acqua trattabile».
Il team dell’Enea evidenzia che «La generazione di un fascio di elettroni con alta tensione (o electron beam) è molto vantaggiosa e converte la potenza in ingresso in potenza del fascio con efficienze fino al 95% (rispetto al 30% ottenuto nelle lampade UV). In questo modo si potrebbero abbattere fortemente i costi di esercizio degli impianti di depurazione e i residui chimici, presenti ancora dopo il processo, potrebbero essere facilmente eliminati mediante tecnologie ben consolidate, come la precipitazione o coagulazione che utilizzano reattivi chimici semplici aggiunti al termine del processo».
La Rizzo conclude: «Il Laboratorio ha recentemente seguito una tesi di laurea in ingegneria energetica, in cui sono state fatte valutazioni teoriche di costi di investimento, pari a circa 14 milioni di euro, ed è stato rilevato che esiste un’importante economia di scala per questo tipo di impianti».
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